L’articolo che segue riprende e sviluppa il filo del discorso iniziato nel comunicato pubblicato da UNARMA del 10 gennaio u.s.(1) sugli aspetti critici presenti nelle nostre istituzioni di polizia e militari attraverso i racconti e le esperienze della dott.ssa Simonetta Garavini*, psicologa e Maggiore della riserva selezionata nell’E.I, in congedo, e le indicazioni sullo stato dei fatti del nostro Dipartimento di Psicologia. In tal senso vogliamo sottolineare come UNARMA condivida con l’autrice il focus dell’attenzione non tanto sugli aspetti positivi istituzionali che esistono e che si considerano il punto di riferimento fondamentale nel nostro lavoro bensì su quegli aspetti enigmatici, invisibili e dannosi che rendono difficile e, talvolta impossibile, portare avanti con dignità ed onore il proprio operato così impedendo, con la loro forza, il compimento e la concretazione di significativi obiettivi. La dott.ssa Garavini introduce un tema ineludibile riguardante la presenza femminile nelle forze armate con questa premessa, per noi, d’obbligo: “so(stare) sugli aspetti inquietanti dell’Istituzione che giungono all’attenzione da qualche tempo e che vengono trattati, nel presente articolo, con una visione d’insieme globale del malessere che emerge come risultato di un incontro molto spesso deludente tra l’Istituzione, l’individuo, il gruppo e con il confronto con una presenza femminile che ha rappresentato un inciampo di tutto rispetto. Parliamo dei giovani e, anche, di una catena di comando che hanno perso il contatto con quella che da tempo recente si segnala come capacità di resilienza, in pratica, sfida, impegno, controllo, a fronte di quella che, oggi, vale più come resistenza ossia opposizione, tendenza alla sopravvivenza e sopportazione dell’attività ben sigillate dal ricorso a modalità di intervento sullo stress e non, anche, di empowerment della performance e personale. Dalla trincea nella quale stagnano, in una sorta di “attesa” della vita, affiorano quelle che sono le nuove sintomatologie e patologie di tipo esistenziale con vissuti depressivi, fatica a progettare il futuro e il presente, vissuti di vuoto. Queste verosimili alterazioni dei comportamenti del singolo si trasmettono alla struttura militare e viceversa ed è il malessere principe che conduce verso l’utilizzazione di tutte le possibili vie di fuga dalle forze armate, dalla difficoltà di reclutamento dei giovani compresa la rinuncia al momento di presentarsi, alle defezioni e fino al suicidio. Il ripudio del confronto e del conforto rischia di portare un sistema al collasso o, al meglio, all’inefficienza. E’, tuttavia, possibile trarre vantaggio non solo dagli aspetti forti di una Istituzione ma anche da quelli più deboli laddove si prenda atto che il fallimento è essenziale per arrivare al punto desiderato. La condivisione di un vissuto di insuccesso permette di fare l’esperienza di ciò che risulta imperfetto, di andare oltre il giudizio negativo e svalutante che porta all’esclusione e/o all’abbattimento delle proprie possibilità e che pone il problema del confine tra una richiesta possibile e una impossibile. In pratica tra ciò che è parte di un regolare, duro e faticoso, addestramento militare e un abuso, tra quello e una bassa tolleranza alla frustrazione. Lo stigma crea la patologia poiché sollecita una bassa fiducia generale e di autostima mentre il benessere genera una motivazione all’azione. L’intento non è, certamente, quello di lanciarsi in subdole interpretazioni e/o prese di posizione senza il paracadute della verifica, dell’approfondimento e della ricerca. Sta di fatto che un’organizzazione che non considera l’importanza di una appropriata formazione del personale cessa di esistere. L’accento posto sulle conseguenze di una non adeguata preparazione organizzativa dell’Istituzione richiede un ripensamento di quei principi fondamentali che sono andati via via disgregandosi. La sfida del femminile nelle forze armate. VITTIME? NE’SI NE’NO. L’attenzione procede rivolgendosi, in particolare, a quelle criticità che emergono come aspetto normale della esperienza umana (2) e che non sono contenute se non da norme, quando esistenti, che, proprio perché tali, rappresentano quel confine con una presunta trasgressione paradossalmente ineffabile e difficilmente risolvibile. La questione femminile non sembra, ancor oggi, essere giunta ad un traguardo se siamo posti di fronte alla realtà delle molestie e degli abusi sessuali e ci si chiede, pertanto, quanto la presenza delle donne nelle forze armate rappresenti, ancora, una novità. Sono d’accordo con chi afferma che il concetto di vittima sia fin troppo abusato (3), direi abusante, con tutti quegli orpelli legati al consentire, accettare, aderire, volere e non volere, dire e non dire, sopportare, cedere (4). Nel senso che vittima conduce ad una sorta di implicita vittimizzazione secondaria, ad un vittimismo prevalente, alla considerazione di un soggetto diverso, sfortunato, totalmente passivo mentre, al contrario, egli è un soggetto attivo e implicato in tutto ciò che gli accade. Consapevolmente e inconsapevolmente. Tralasciando gli ovvi aspetti di gravità di tali eventi, non mi riferisco ad un discorso sulla colpa, piuttosto a quello di una scarsa considerazione di aspetti rilevanti della personalità di due individui che entrano in una certa combinazione, come, anche, della condizione femminile ancora in ballo con la sua subordinazione ad una presunta superiorità maschile in ogni aspetto dell’esistenza. La combinazione di una relazione tra due soggetti può innescare aspetti vulnerabili che possono sopraffare le capacità di giudizio e di controllo anche in individui con solidi principi morali (5). Per questo le donne dovrebbero essere preparate, addestrate all’incontro con una realtà maschile e maschilista che limita il cambiamento e il loro contributo creativo in un ambiente gerarchicamente organizzato (6), resi consapevoli della varietà di figure femminili che non sono tutte e sempre accettabili o giustificate e che, in ogni caso, non dovrebbero mai essere abusate. E questo vale, anche, per gli uomini che, come sottolineato, possono trovarsi nelle condizioni di strumentalizzare e/o abusare delle donne per soddisfare scopi della personalità di tipo distruttivo. Il caso Salvatore Parolisi (non) docet (7). Sto entrando in punta di piedi in questo discorso della rilevanza degli aspetti della nostra personalità definiti inconsapevoli, inconsci, che muovono le nostre azioni al di là della volontà cosciente (box). Partiamo dagli aspetti più superficiali e tranchant dell’immediatezza del fatto. La denuncia, e saremmo già ad un passo avanzato, di un abuso al quale non si crede o si crede incondizionatamente. Il primo caso può essere una circostanza altamente probabile e certi eventi accadono come testimoniano i numerosi casi all’attenzione mediatica. La condizione asimmetrica, non sempre, della relazione trasgressiva pone il soggetto più “debole” nella condizione di poter cedere, ma cedere non significa acconsentire. “C’è chi pretende che il consenso sia un atto della ragione, ma che ragione c’è quando si tace? “Acconsente davvero una persona che resta muta?… O non c’è piuttosto una responsabilità. Che significa? “…Ma chi è in grado di mostrare, una volta ch’è finito tutto cos’è successo? (8). Le vittime o presunte tali vanno sempre ascoltate perché il disagio che viene comunicato deve essere affrontato e non negato. Dopo il 2003, anno della mia nomina a Maggiore della riserva selezionata nell’Esercito Italiano, feci una esperienza che mi lasciò di stucco. Durante un richiamo in servizio, unica donna ufficiale superiore in una caserma, convocai tutte le donne militari esistenti che erano giovani e, per la maggior parte, non graduate. Cosa che feci anche con i ragazzi. Dissi loro che per qualsiasi problema la mia porta era aperta e che avrebbero potuto chiedermi di ascoltarli e riferirmi ogni tipo di disagio. Dopo qualche giorno si presentò un gruppo di donne che veniva a riferirmi che il loro superiore gli suggeriva o meglio “ordinava” di parlare male di me con motivazioni inesistenti e che loro si sentivano in difficoltà non sapendo come agire. Ben sapevo di che motivazioni si trattava. Un soggetto che, eticamente contro le regole, cercava di sedurmi percependo il mio fermo atteggiamento neutrale come un attacco alla propria identità, come una umiliazione che necessitava di essere risolta in modo distruttivo. Però, al di là dei provvedimenti attuati, la domanda che mi posi fu: “in cosa ho sbagliato? cosa mi è sfuggito? cosa non ho osservato e compreso del contesto? dove devo mettere delle sentinelle?”. Questioni che motivarono le mie azioni verso obiettivi costruttivi di analisi e proposte che, tuttavia, seppur considerate fondate, ancor oggi appaiono disattese ma che fecero emergere l’aspetto più interessante dell’esperienza ossia l’incontro fondamentale con il fallimento per la propria crescita personale. Questa premessa all’analisi che segue intende, pertanto, aprire un discorso allargato e spinoso riguardo la violazione dei confini sessuali e la sua prevenzione, nonostante gli sforzi che si possano investire in una formazione, che non si ferma solamente alla considerazione dei bisogni delle vittime quanto al contributo delle istituzioni alla loro patogenesi come anche al tono delle risposte ottimali e non ottimali alle lamentele e alle dicerie. E’ possibile, tuttavia, essere convinti che alcune trasgressioni possano essere evitate attraverso interventi speciali di tipo psicologico che devono entrare a far parte del programma addestrativo e, a tal fine, la considerazione circa l’importanza di legittimare il ricorso ad analisi e pubblicazioni di casi così delicati, opportunamente mascherati, che permettano di approfondire la comprensione del fenomeno (9). “La presenza di standard etici chiari è utile ma non sufficiente per dipanare questo genere di difficoltà” (10). – Riflessioni sulla condizione femminile dei primi anni 2000. Sono ancora valide?: “Torniamo ad una delle domande fondamentali, “chi sono i soldati?” e cominciamo col dire che, da qualche anno, i soldati sono uomini e donne. La riforma che portò all’arruolamento delle prime volontarie nelle FFAA, fu preceduta da un ampio dibattito riguardante se e come le donne dovessero essere arruolate, se le prove di selezione dovessero essere le stesse degli uomini e se gli incarichi attribuibili dovessero comprendere anche quelli combattenti. Nella storia del nostro paese fino ad allora la presenza della donna era stata limitata ad alcuni servizi ausiliari, primo tra tutti quello delle Infermiere Volontarie della Croce Rossa. Nella 2^ Guerra Mondiale furono ben tre le strutture con formazioni femminili oltre, ovviamente, il Corpo Sanitario della Croce Rossa: 1. nella Repubblica Sociale abbiamo le volontarie del Servizio Ausiliario femminile volontario; 2. nelle formazioni partigiane abbiamo le combattenti e le staffette; 3. nell’Esercito del Sud abbiamo il Corpo Ausiliario Femminile delle Forze Armate (11). Quindi è corretto definire l’attuale presenza delle donne nella organizzazione delle Forze Armate come “trasformazione del concetto di servizio ausiliario in quello di servizio combattente” con pari diritti ed opportunità del collega militare uomo e completa integrazione nello strumento militare. Non staremo qui a sottolineare gli apporti positivi dell’inserimento femminile nell’ambiente militare che sono molti e probabilmente erano necessari. Vediamo alcuni aspetti di criticità perché possono suggerire vie d’uscita. Parlare delle criticità di cui l’elemento femminile investe le FFAA ci pone di fronte a molti “se”. “Se” si debba selezionare: a) donne mascoline per perseguire una maggiore integrazione con un ambiente maschile di superiore percentualità e soprattutto mascolino nelle sue rappresentazioni sociali; oppure b) donne femminili per ingentilire l’ambiente. “Se” le particolari caratteristiche delle ciclicità femminili influiscono sui percorsi addestrativi-operativi.“Se” fra i militari una donna è prima di tutto una donna e, quindi, elemento di indebolimento perché da proteggere o oggetto di rivalità.“Se”una gerarchia femminile può considerarsi affidabile. Il gioco dei pregiudizi e degli stereotipi ci porterebbe molto lontano. Di fatto le donne sono un problema per la struttura militare tanto più grande quanto meno sono numerose e quanto meno sono rappresentate ai vertici gerarchici. Il problema dell’integrazione si pone e questo non significa che la donna-soldato non porti criticità (12). La struttura militare è di genere maschile nelle sue costituenti identitarie in quanto esprime caratteristiche che la rappresentazione sociale attribuisce al genere maschile: forza, coraggio, aggressività, resistenza fisica, disponibilità allo sradicamento ambientale. Le caratteristiche attribuite al femminile sono tutte quelle relative al ‘lavoro di cura, al maternage, alla costruzione di legame, alla seduzione. Parliamo qui di rappresentazioni non della realtà personale in quanto ognuno di noi sa bene che uomini e donne posseggono in misura soggettivamente variabile un mix di queste caratteristiche. Tuttavia, quando pensiamo ad un soldato la prima immagine è quella di un uomo capace di usare la forza e quando pensiamo ad una donna le immagini sono di maternità e seduzione. È con questa visione storica, sociale e personale che si deve misurare ognuno di noi nel trattare il tema della donna-soldato e, ancor più, ci si deve misurare chi ha il compito della selezione, chi deve addestrare e chi deve gestire operativamente il soldato donna in una organizzazione ed in un ambiente a forte connotazione maschile, con difficoltà maggiore se colui che è chiamato a selezionare, ad addestrare ed a impiegare è uomo. Allora, in fase selettiva, le prime domande sono: – quanto deve essere mascolina una donna per essere un potenziale ‘buon soldato?’; – quanto la struttura militare può permettersi di femminilizzarsi nelle sue attitudini generali prima di produrre un ‘soldato buono’ con rischio di inefficacia? La presenza delle donne nelle caserme e nei vettori ha portato anche la questione della promiscuità. Uno stereotipo molto diffuso è che, siccome le donne omosessuali sono mascoline, allora le donne con caratteristiche o atteggiamenti mascolini sono omosessuali; si dovrebbe dedurre che la maggior parte delle nostre donne militari siano omosessuali ma chi frequenta ambienti militari sa che la realtà non è questa. Si potrebbe dire, provocatoriamente, che proprio questo è il problema. Quanto giova alla coesione di gruppo la presenza di correnti attrattive e di rivalità fra i suoi membri? In sociologia si distingue fra la coesione diretta al compito e quella sociale di legame personale. Quest’ultima consente l’instaurarsi di quei rapporti di conoscenza e fiducia personale reciproca che in ambito operativo determinano l’efficacia dell’azione e, quindi, sembrerebbe la più adatta alle nostre situazioni; sicuramente è quella più coltivata e che dà origine al cosiddetto spirito di appartenenza. Possiamo ipotizzare che quanto più saranno impegnativi i compiti che richiedono collaborazione tanto più la coesione sociale e relazionale sarà focalizzata al gruppo e non contaminata da fattori interpersonali attrattivi: un forte impegno fisico e intellettivo mal favorisce atteggiamenti seduttivi. La sfida imposta dall’elemento femminile alla struttura militare è quella di trovare una strada fra gli scogli di una falsa desessualizzazione del personale che finge che le donne-soldato siano uomini solo un po’ diversi dagli altri e gli scogli di una valorizzazione della differenza di genere che potrebbe minare alle fondamenta le capacità di coesione dei gruppi e il senso condiviso della disciplina. Probabilmente la via d’uscita si troverà quando i numeri cambieranno e avremo del tutto coperto quella percentuale che la legge riserva alle donne; e, anche, quando i problemi quotidiani con cui i comandanti sono costretti a misurarsi saranno esplicitabili e oggetto di formazione specifica. Terminiamo con questa audace riflessione di Napoleone Bonaparte “non fare mai ciò che vuole il nemico se non altro per la ragione che egli lo desidera”.
Roma, 21 febbraio 2024
UNARMA – DIPARTIMENTO DI PSICOLOGIA
BOX
(trascrizione di una comunicazione scritta tra l’autrice e il Gen.C.A. Alberto Ficuciello)
Caro Generale, i generali sono degli esseri incomprensibili. Riservano sorprese buone e cattive. Tu li immagini e talvolta anche li vedi decisi, con quel piglio che solo un comandante può riservare alla propria missione. Sì, li immagini in testa ad una grande armata o divisione o brigata, insomma in testa, in prima linea. Poi, al contrario, li vedi ritirarsi di fronte ad un banale confronto emotivo. E non è facile capirlo. Forse è giusto così ma per tutte quelle volte che ho visto simili atteggiamenti ho visto anche il fallimento, per non dire, a volte, delle disfatte. Nella mia esperienza, e non solo riferita ai generali, ogni volta che un capo non è stato pronto a gestire una relazione nel modo appropriato, egli, e con lui la sua organizzazione, ha perso una guerra e ha creato dei nemici. Nemici invisibili che sono molto più pericolosi degli avversari su un campo di battaglia: sfiducia, demotivazione, sfida, rabbia, boicottaggio, calunnie. Inutile dire, qui, che gli psicologi servono anche a questo proposito e meno male che ci sono, fintanto che essi stessi non rimangono impantanati in queste dinamiche. A.F. “Ma avrei piacere che lei mi spiegasse meglio di questi “nemici”. Dove sono?” S.G. “Caro Generale, questa è la preoccupazione di ogni militare. E, come Le ho detto, facilmente molti lo creano, con la diffidenza, la slealtà, i trucchi. I soldati devono sempre applicare le strategie come fossero in guerra. E qualcuno dichiara guerra, per difendersi. Per questo dico che il nemico è spesso dentro di noi. E per questo gli altri ci colpiscono. Ci individuano. E’ difficile stanare i propri nemici ma è l’impresa strategica vincente. Non dia spago e non gli dia importanza, loro esistono finché Lei gli permette di esistere. E Lei, Generale, inizia subito la sua paternale, poi però mi ha parlato di sé, delle sue emozioni, di tante cose così difficili da esprimere che mi sono un pò ed egoisticamente sentita onorata di tanta fiducia anche se capisco che per ogni soldato e, soprattutto per alcuni, ricordare alcuni eventi della propria vita possa essere una impresa insormontabile.
NOTE
1) UNARMA, “L’Innovazione Psicologica nell’Addestramento delle Forze di Polizia e Militari – Una Sperimentazione Interrotta e le Sue Conseguenze, Gen.10, 2024
(2) “Tutti noi siamo soggetti al potere e all’energia della sessualità e più è chiaro che non agiremo queste tendenze, più riusciremo a controllare i nostri pervasivi sentimenti sessuali. Le immagini e le fantasie erotiche sono comuni” in una situazione di continua condivisione dell’esperienza e “…diventano problematiche quando uno o entrambi…” i soggetti implicati “…restano invischiati in una situazione implicitamente o esplicitamente sessuale”. N. McWilliams “Psicoterapia Psicoanalitica”, Raffaello Cortina, 2006, pag. 218.
(3) M. Marzano “ Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa”, Rizzoli, 2023.
(4) Ibidem, punto (3).
(5) G. O. Gabbard “Violazioni del Setting”, Raffaello Cortina, 2017.
(6) C. Volpato, “ Psicosociologia del maschilismo”, Laterza., 2022.
(7) ” Ludovica non è stata l’unica amante di Parolisi, tra le allieve della caserma…Quello che emergerà è che all’interno di quelle mura era frequente il ricorso ad abusi di potere da parte di graduati nei confronti di reclute, il tutto coperto da una cortina di omertà e cameratismo”. E. De Marco “Manipolatori, le catene invisibili della dipendenza psicologica”, Mondadori Electa., 2023.
(8) M. Marzano “ Sto ancora aspettando…, cit., pag. 149.
(9) G. O. Gabbard “Violazioni…, op.cit.
(10) N. McWilliams, Psicoterapia…, cit., pag. 218
(11) Nella Repubblica Sociale le volontarie del Servizio Ausiliario femminile volontario non erano militari e non erano combattenti; svolgevano solo servizi ausiliari tant’è’ vero che non avevano le stellette, simbolo, da sempre, di appartenenza alle Forze Armate. Le formazioni partigiane avevano donne combattenti ma le stesse non erano organizzazioni appartenenti alle Forze Armate ma organizzazioni politiche di resistenza al nemico. Tant’e’ vero che i decorati non hanno ricevuto medaglie d’oro, di argento, ecc. al valore militare bensì a quello partigiano. Per l’esercito del Sud e il Corpo Ausiliario Femminile delle Forze Armate vale lo stesso discorso della Repubblica Sociale.
(12) Sulla questione intergenere è interessante, ad esempio, il racconto di Marina Catena nel suo libro “Una donna per soldato” al cap. “ Chi dice donna dice danno?”. M.Catena “Una donna per soldato, BUR Rizzoli, 2008.
*Simonetta Garavini è psicologa e psicoterapeuta psicoanalitica, esperta in psicologia giuridica e criminologia; è socio ordinario della Società Italiana di Criminologia. Nel 2003 consegue un Diploma di Master di II Livello in Peacekeeping and Security Studies presso l’Università degli Studi di Roma Tre e, nello stesso anno, con Decreto del Presidente della Repubblica è un Maggiore Psicologo della Riserva Selezionata nell’Esercito Italiano, in congedo. Ha collaborato con il Ministero dell’Interno, l’Arma dei Carabinieri, la Guardia di Finanza, lo Stato Maggiore dell’Esercito e lo Stato Maggiore della Difesa. E’ autore del primo manuale sul Primo Intervento delle Forze di Polizia (Strategie operative di supporto nella conduzione di situazioni di crisi e di emergenza) con la prefazione del “Capitano Ultimo” edito da Laurus Robuffo nel 2002.