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UNARMA INNOVAZIONE PSICOLOGICA DELLE FORZE DI POLIZIA MILITARI

da | Gen 10, 2024 | News | 0 commenti

AL COMANDO GENERALE DELL’ARMA DEI CARABINIERI


OGGETTO: “L’Innovazione Psicologica nell’Addestramento delle Forze di Polizia e Militari: una
Sperimentazione Interrotta e le Sue Conseguenze”.

Introduzione:

L’evoluzione della formazione e dell’addestramento all’interno delle Forze di Polizia e Militari negli anni ‘90 aveva iniziato a subire una profonda trasformazione grazie all’innovazione psicologica. Questa rivoluzione, volta a potenziare le capacità operative e a garantire il benessere psicologico degli operatori, è al centro della narrazione che segue. In questo contesto, l’Associazione sindacale carabinieri UNARMA, oggi, ha assunto un ruolo di spicco dimostrando un interesse profondo nei confronti del disagio psicologico degli operatori di polizia, della prevenzione del suicidio e delle strategie per migliorare la salute mentale dei professionisti impegnati nelle Forze dell’Ordine. L’obiettivo ultimo di questa narrazione è gettare luce sull’importanza di affrontare e prevenire il disagio psicologico nelle professioni ad alto rischio, sottolineando il ruolo centrale svolto da UNARMA nel promuovere un ambiente di lavoro più sano, resiliente e consapevole. Il documento che segue racconta la storia di una sperimentazione innovativa condotta dall’Arma dei Carabinieri alla fine degli anni 90 in collaborazione con la psicologa e psicoterapeuta Simonetta Garavini. Questa fu una via ambiziosa iniziata con una sperimentazione di tipo psicologico per il primo intervento che avrebbe dovuto portare a significativi miglioramenti nell’addestramento e nella preparazione del personale operativo fornendo loro gli strumenti necessari per fronteggiare eventi destabilizzanti e potenziare la propria efficacia in situazioni critiche. Tuttavia l’Arma dei Carabinieri interruppe la sperimentazione, nonostante i risultati promettenti, senza alcun motivo apparente impedendo un grande passo nell’applicazione della psicologia all’interno delle procedure operative. Questo testo non solo racconta la storia della sperimentazione ma critica anche l’inaspettata interruzione del progetto e le sue possibili conseguenze negative connesse all’approfondimento del tema e al possibile sviluppo di un’area psicologica preventiva per il contenimento del disagio psicologico delle forze di polizia e militari in Italia. Da notare che uno studio pubblicato dalla Difesa nel 2019 relativamente alla distribuzione delle visite psichiatriche per Forza Armata ha indicato che l’Arma dei Carabinieri, dopo l’Esercito, presenta un maggior numero di casi di pertinenza psichiatrica (1). Quella che stiamo per raccontare fu un’esperienza incredibile tanto affascinante quanto scomoda, che mirava a salvaguardare le risorse e la vita stessa degli operatori a rischio attraverso il potenziamento della performance operativa. Prevedeva un’applicazione degli strumenti della psicologia volta alla formazione, ossia alla “preparazione” del personale di polizia e/o militare come soggetto chiamato ad operare in contesti critici di routine e/o di difficoltà psicologica/operativa al di fuori di un’applicazione di tipo clinico-riabilitativo delle situazioni di disagio del soggetto. Ne fu, appunto, artefice, questa “psicologa per detective e G-men” (2) che divenne, successivamente, un ufficiale della riserva selezionata nell’Esercito Italiano lasciando nelle mani della istituzione i resti di tale esperienza e lo spreco di risorse. Con lei collaborò un esiguo gruppo di sottufficiali messo a disposizione dalla stessa
Arma dei Carabinieri che operò con entusiasmo ed efficienza e a cui, in seguito, si aggiunsero autorevoli ufficiali scatenando una vera e propria competizione interna per poterne far parte. Tra questi, il vicepresidente di UNARMA, capitano Francesco Caccetta, fu il più stretto collaboratore della Garavini, un supporto tecnico importante in quel momento di innovazione del metodo formativo di tipo psicologico e che condivise gran parte dei momenti dell’esperienza compresi quelli più critici. Fu il primo ad applicare con successo quanto appreso durante un intervento critico. Le tracce rimaste di questa vicenda appartengono alla memoria, a un articolo sulla rivista dei Carabinieri, ad articoli su quotidiani, a un testo pubblicato, nonché a un riconoscimento dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (3). Ci sono, però, anche dei documenti dell’Istituzione che mettono in risalto una evidente contraddizione tra le affermazioni avanzate dall’Arma circa la non esistenza di documentazione in merito a tale attività e la documentazione consegnata alla Garavini riguardante proprio alcune valutazioni di tale attività. Nel primo caso il riferimento è ad una lettera inviata in risposta alla Garavini dal Comando Generale per il tramite del suo avvocato, con l’affermazione che “i regolamenti e le norme interne degli istituti di istruzione dell’Arma dei Carabinieri non prevedono la redazione di note e/o giudizi per l’attività svolta…peraltro, l’aver svolto lezioni a carattere non continuativo” e che “…non abilita a conoscere i ‘criteri’ per l’adozione di provvedimenti discrezionali della Pubblica Amministrazione…”(4). Va precisato che si trattò di un intenso programma che si concretò in veri e propri seminari esperienziali che arrivarono anche a otto ore al giorno per due o più giorni consecutivi oltre al lavoro organizzativo con il gruppo, attività che non poteva, in ogni caso, non essere attenzionata e documentata. Fu, infatti, la stessa Arma a confermare, in un documento consegnato alla Garavini, che “L’attività didattica imperniata su simulazioni di situazioni operative, contraddittorio con gli allievi, visione di filmati e riproduzioni cinefotografiche a forte contenuto emozionale ha riscosso un elevatissimo grado di interesse e quindi di attenzione da parte dei discenti… Anche il personale istruttore, ai vari livelli, ha espresso consenso ed è apparso interessato, oltre che agli argomenti trattati, alle metodologie utilizzate dalla relatrice” (5). Non essendo, questi incontri, contemplati nei programmi formativi in atto, fu necessario abolire conferenze e quant’altro al fine di reperire lo spazio necessario che l’Arma dei Carabinieri ritenne necessario al fine di aprire una nuova via, quella preventiva (6), appunto, per un diverso approccio ai disagi del personale impiegato soprattutto in situazioni operative e situazioni critiche di routine. “Questi cicli addestrativi hanno quindi rappresentato una novità assoluta e possono costituire la premessa per lo studio di una metodologia operativa di grande interesse… anche per ciò che riguarda l’attività operativa di routine” (7). In merito allo stato di fatto delle attività effettuate, vi era, poi, il riferimento alle valutazioni emerse anche dalla somministrazione, in via anonima, di test con domande aperte agli allievi dopo ogni addestramento e di cui ne sono stati conservati dalla Garavini circa 2000. Appare chiaro, quindi, che tale esperienza fu particolarmente significativa per gli allievi delle Scuole dell’Arma sia per i contenuti che per il metodo utilizzato e, in un primo momento, fortemente sostenuta dai vertici che intesero dare sempre più spazio agli iniziali seminari. In Italia esisteva, tra l’altro, un vuoto su tale argomento e la psicologia militare prese forma con l’arruolamento degli psicologi militari in quello stesso periodo, aspetto che attirò l’attenzione della Garavini sulla condizione della psicologia militare esposta in un convegno delle FF.AA e di Polizia nel 2008 (Box 1). La formazione psicoanalitica indirizzò la visione metodologica e le idee della Garavini che si servì anche dei contributi di altri orientamenti psicologici e, in primis, del risultato delle applicazioni condotte dall’FBI in merito alla gestione delle emozioni da parte degli operatori delle Forze di polizia di fronte a situazioni di rischio, in particolare nel primo intervento. Un lavoro immenso che aveva richiesto la traduzione dalla lingua americana del materiale fornito direttamente dall’FBI per il tramite
del ministero dell’Interno, l’analisi di interviste e dei colloqui diretti con il personale operativo, l’adattamento delle informazioni alla realtà italiana e lo studio strategico del metodo di apprendimento. La stessa Garavini si formò nel 2003 e 2005 a Roma con istruttori dell’FBI sul tema delle negoziazioni in caso di ostaggi. Le finalità di questi addestramenti non solo si collocavano al di fuori di sovrapposizioni con altri insegnamenti della psicologia e della riabilitazione ma, come accennato, intendevano marcare la differenza fra “interventi riabilitativi” necessari dopo il danno ossia dopo l’esposizione ad eventi critici e/o traumatici ed interventi “formativi” prima di un danno; in pratica, fra “curare” il soggetto e “equipaggiarlo psicologicamente” per potenziare l’efficacia della performance, permettendogli non tanto di “sopportare” l’operatività bensì di fronteggiare gli eventi destabilizzanti attingendo ad un arsenale di scorta, e, pertanto, arruolando le emozioni a proprio vantaggio. Significò portare il soggetto direttamente sul “campo di battaglia”, metafora che intendeva la necessità per l’allievo di potersi e doversi esporre sul piano emotivo in un ambiente protetto senza giudizi né interventi terapeutici bensì funzionali all’approccio alle situazioni critiche. Un’attività che si snodò nell’arco di almeno tre anni tra il 1999 e il 2001. Lo scopo della Garavini fu quello di approfondire e sviluppare temi inerenti agli approcci dell’attività investigativa nei procedimenti informativi tratti, soprattutto, dalle attività atipiche (8). Ebbe l’occasione di proporsi in maniera concreta a seguito della richiesta avanzata dalla Scuola Allievi Carabinieri di Roma di effettuare, inizialmente, un ciclo di conferenze su un tema di carattere criminologico a sua scelta. Tra le varie proposte sottoposte all’attenzione del Comandante pro tempore la decisione riguardò il tema relativo al primo intervento che fu adottato ad iniziare dalla Scuola Allievi CC (Roma – Campobasso – Iglesias) per estendersi al secondo livello della Scuola per Marescialli e Brigadieri (Firenze e Vicenza) con le premesse per la proiezione al vertice di tali istituti ossia la Scuola Ufficiali CC di Roma. Quest’ultima tappa non fu realizzabile a causa di resistenze e ostilità a questa attività che indussero la Garavini a fare un passo indietro previa lettera inviata all’allora Comandante Generale Sergio Siracusa (Box 3) il 28 giugno 2000 con l’intento ultimo di salvaguardare l’esperienza accumulata e non abbandonare gli allievi drasticamente. Anche il gruppo affiliato alla Garavini fu disciolto e con esso tutto fu sepolto ed archiviato. La Garavini era preparata all’impatto con la resistenza che ci si poteva aspettare dall’entrare in un mondo emotivo gestito in modo particolare ed incline al controllo e alla repressione del disagio psichico e, probabilmente, sarebbe stato necessario, da parte dell’Arma, prenderne consapevolezza per ripensare alla condizione delle dinamiche interne in vista dei cambiamenti sociali che avrebbero posto nuove sfide in ambito operativo che, come oggi sappiamo, riguarda contesti altamente destabilizzanti che possono creare reazioni normali in condizioni anormali. Da questa attività scaturì la pubblicazione di un manuale edito dalla Laurus Robuffo nel 2002 dal titolo: “Primo Intervento delle Forze di polizia – Strategie operative di supporto nella conduzione di situazioni di crisi e di emergenza”. Tale testo ha ricevuto, tra altre autorevoli, una riflessione significativa dal Gen. Nicolò Pollari, allora Capo del SISMI, che lo aveva descritto, in una lettera inviata all’editore nel 2002, come un “approccio d’analisi estremamente originale ed innovativo (tenuto conto del panorama delle pubblicazioni tecnico-professionali esistenti) che potrebbe rivelarsi di estrema utilità… sono solo alcuni degli elementi che, a mio avviso, rendono l’opera veramente unica nel suo genere… mi pregio di esternare un giudizio estremamente positivo sulla pubblicazione…”.
La Garavini divenne, nel 2003, un ufficiale della riserva selezionata nell’E.I, ruolo che determinò una spinta morale e di entusiasmo per la tutela dell’Istituzione. Questa posizione coinvolse l’Arma dei Carabinieri anche in quanto forza armata nelle osservazioni segnalate in merito ad un gap formativo, ossia preventivo, nelle Forze Armate per la gestione emotiva del personale impiegato in aree a rischio. Certamente i fatti di Nassirya costituirono una spinta determinante per procedere nei suoi approfondimenti relativi a contesti altamente destabilizzanti le cui conseguenze non hanno a che fare solo con l’addestramento di base, ancorché di elevato livello, del personale militare o di polizia, bensì con la difficoltà a poterne fare uso a causa dei meccanismi di tipo regressivo che intervengono sul piano psicologico in tali contesti. Queste osservazioni, in definitiva, appaiono piuttosto rilevanti per affrontare le peculiarità del funzionamento psichico e dei tratti di personalità funzionali per tali compiti e che possono influire sulla direzione di una valutazione di disagio, trattamento o cura (Box 2). A distanza di più di 25 anni dall’esperienza della Garavini le criticità nel supporto psicologico all’interno dell’Arma dei Carabinieri sono rimaste pressoché immutate. Anzi, probabilmente, si sono ancora più acuite. Oltre alle molte lacune organizzative e gestionali dell’Istituzione militare la profonda crisi sociale che ha investito il nostro Paese negli ultimi anni ha contribuito al conseguente aumento del disagio psicologico tra la popolazione compresi, di conseguenza, i militari. A fronte di questo scenario l’Arma non è, verosimilmente, ancora riuscita a trovare soluzioni efficaci e continua a gestire in modo antiquato le fisiologiche problematiche psicologiche del personale che sono legate all’elevato livello di stress insito nell’impegno professionale dei Carabinieri. Questo avviene con un approccio punitivo e non supportivo isolando e stigmatizzando coloro che attraversano un momento di difficoltà e che potrebbero, invece, quasi sempre agevolmente e rapidamente superarlo con adeguate forme di aiuto. Per tale ragione, UNARMA, sotto la guida e la direzione del vice presidente Francesco Caccetta, ha creato due anni fa un Dipartimento di Psicologia Militare e di Polizia all’interno della sua struttura organizzativa. Questo dipartimento è diretto dal Dr. Marco Strano, psicologo con più di 40 anni di esperienza nell’ambito delle Forze di Polizia e di Polizia Penitenziaria, proprio per tentare di dare una risposta concreta alle esigenze di supporto psicologico dei Carabinieri.
È stato realizzato un sistema di aiuto gestito da psicologi professionisti appositamente addestrati che, anche in forma anonima, svolgono colloqui di supporto totalmente gratuiti. Ciò avviene prevalentemente attraverso una linea telefonica dedicata e mediante videochat. L’obiettivo primario del servizio messo in piedi da UNARMA è aggirare i leciti timori da parte dei Carabinieri di manifestare un loro momento di difficoltà psicologica per non incorrere in azioni di emarginazione da parte della catena di comando e trovare, altresì, un aiuto e una guida per ritrovare la serenità. Dal testo, si evince che il sindacato dei carabinieri UNARMA ha mostrato interesse per l’argomento della sperimentazione innovativa nell’addestramento delle forze di polizia e militari, tanto da aver messo in piedi un sistema di aiuto gestito da psicologi professionisti appositamente addestrati per supportare il personale in difficoltà psicologica. Questo dimostra l’importanza che il sindacato attribuisce alla salute mentale e al “benessere” dei propri membri e la necessità di fornire loro il supporto adeguato ad affrontare le sfide del lavoro operativo.

Cordiali saluti
Roma, 10 gennaio 2024
Unarma – Dipartimento di Psicologia Militare e di Polizia

I BOX

Box 1
Operatività e psicologia militare
(Estratto delle riflessioni di un Ufficiale Psicologo della Riserva Selezionata E.I. sullo stato della situazione nel 2008 estese al 2016)

La grande incognita di fronte alla quale si troveranno sempre più gli operativi è la “sorpresa”. La sorpresa delle risposte impulsive disfunzionali piuttosto che operative. Ci troviamo di fronte ad effetti che nemmeno un elevato livello addestrativo e una disponibilità tecnologica di alto livello riescono a contenere ed evitare. Il rischio è il “core business delle forze militari e di polizia”. Si tratta di allargare lo spettro della prevedibilità degli eventi sul piano psicologico equipaggiandoli di nuovi strumenti sul piano mentale. Si tratta di rivalutare il ruolo della psicologia militare e il significato del suo contributo nelle questioni che interessano la sicurezza del personale militare e di polizia e la credibilità dei loro comportamenti. È una opportunità che fino ad ora la politica in generale non ha saputo o voluto individuare, considerare e valorizzare a proprio vantaggio e a vantaggio del Paese. La psicologia militare può fare molto perché può uscire dai confini di un’applicazione di tipo clinico-riabilitativo delle situazioni di disagio psichico, più peculiare alla psichiatria; occuparsi dell’uomo in quanto persona e risorsa. Ma bisogna anche stare attenti al cattivo uso che si può fare della psicologia e su questo esistono molti studi e indagini fatti soprattutto negli ambienti carcerari anche militari sul tema della complicità del Comando. Dobbiamo dire che ho privilegiato il ruolo di ufficiale psicologo mantenendo quella libertà di azione necessaria alla mia professionalità e che appare certamente più possibile per un riservista che avesse avuto voglia di farlo. Per questo sono convinta che uno psicologo militare non possa essere un ufficiale come gli altri né necessariamente un militare poiché il tentativo di integrare una cultura psicologica, psicodinamica e istituzionale ha prodotto e produce, verosimilmente, reazioni di rigetto che non permettono il concretarsi di esperienze eccezionali. Quando io sono arrivata ogni Forza Armata aveva la “sua” psicologia e trovavo che spesso gli psicologi militari studiavano e applicavano con fatica quello che serviva. Quello che serviva, appunto, era capire chi fossero i soldati e a cosa servissero. E, certamente, se uno non capisce come ragionano i “soldati” (intendendo tutti i livelli) non ha senso occuparsi di psicologia militare. Credevo che gli psicologi militari dovessero seguire ed essere al fianco dei militari sul terreno, allargare i propri interessi ai temi della politica internazionale ed applicare le proprie conoscenze al campo operativo e alle esigenze degli operativi perché l’operatività sarebbe stata il futuro delle Forze Armate. Per fare questo la psicologia militare doveva cominciare a porsi grandi domande, allinearsi lungo il confine che unisce la scienza, il fante sul terreno e il suo destino. Il che, per forza di cose, implicava di frenare e rivedere i propri punti di riferimento. E i propri spazi di conquista. Implicava il coraggio di affrontare ciò che si temeva perché difficile da cogliere. Il prezzo di ogni cambiamento. Credo che ancora oggi, nonostante i progressi avvenuti in questo ambito, la psicologia militare non abbia conseguito quella indipendenza che merita e che il segnalato silenzio su questi temi non indichi un suo sviluppo bensì un vuoto che rischia di confinarla al suo tradizionale ruolo subalterno. Quanto scrivo appartiene a quel momento, anno 2008 e credo sia tuttora in parte valido viste le richieste che ricevo di poter applicare, oggi, quanto ho iniziato con le forze di polizia circa quindici anni fa. Significa che non possiamo non continuare ad esaltare la centralità della politica nelle decisioni che interessano la sicurezza degli operatori di ogni forza armata e di polizia. Bisogna partire dal riconsiderare chi sono oggi le forze di polizia e i soldati e a cosa servono. Nonostante un alto livello di professionalità e l’applicazione di vari interventi interessanti di tipo psicologico e psichiatrico accadono incidenti ed errori che ci devono far riflettere. Il problema non è lo stress in senso generico anche perché bisogna chiarire quale significato si dà a questo concetto, se di carico o di sovraccarico. Altrimenti non ha senso parlare di psicologia delle forze di polizia e militare. Così come bisogna fare il tentativo di chiarire cosa si intenda per disagio psichico di un appartenente a questi ambiti professionali. In primo luogo il compito delle forze di polizia e dei militari ha una intrinseca condizione di stress che è acuta e cronica. Non possiamo addestrare queste persone a schivare il rischio, in pratica non possiamo evitare che essi sperimentino reazioni emotive normali in situazioni anormali. Si potrebbe, anzi, dire che, per esempio, l’abitudine alle situazioni stressanti può portare a non percepire la situazione realisticamente o, anche, a mettere in atto comportamenti devianti poiché facilmente si perde il confine tra ciò che è lecito o illecito. Proprio i contesti di minaccia attuali possono portare ad una alterazione dell’equilibrio psicologico ed emotivo di un soggetto. Nel senso più stretto, se il soggetto vive intense reazioni emotive facilmente può mettere in atto risposte impulsive che significa che con molta probabilità tenderà ad agire e/o controllare le emozioni invece che gestirle. Gestire, infatti, è la capacità di governare e dirigere la forza e, quindi, l’emozione è al servizio della persona. Permette di creare percorsi alternativi. Controllare significa sopprimere, trattenere, bloccare e, perciò, l’emozione è un nemico. Gestire significa, pertanto, farsi il nemico, amico. Quindi, anche con un’alta professionalità le sue capacità e conoscenze possono venire inibite a meno che non abbia imparato o non sappia mantenere il livello della sua attività cerebrale in quel range che gli consente di accedere ad adeguate modalità di risposta. Sono concetti ormai ampiamente dibattuti eppure non ancora ben affrontati. In queste situazioni avranno rilievo soprattutto il modo personale di fronteggiare i rischi (coping styles) e i supporti disponibili. Alzare il livello di stress psicologico in ambiente controllato, per esempio, può permettere di entrare in contatto con il proprio mondo emotivo, può fornire quegli strumenti di cui parlavamo; è questo il punto, non è lo stress che va neutralizzato. Va neutralizzata la scarsa considerazione di questi aspetti. Che, già di per sé, è fonte di insicurezza e di stress patologico. Credo, quindi, che tra i fattori di rischio vi sia, ancora oggi, un gap formativo che attiene a compiti inusuali per queste persone e andrebbe perfezionato un modello di intervento che risponda a questi compiti. Ora, in questi scenari, devono operare gli psicologi delle forze di polizia e militari. Non è che abbiano la bacchetta magica e rischiano di impegnarsi, spesso, non con quei risultati che la psicologia può offrire. Poiché non hanno ancora raggiunto una propria configurazione autonoma di responsabilità e di piena considerazione della loro utilità professionale che si pretende, a torto o ragione, di utilizzare secondo scopi di convenienza. Ecco perché è importante un programma di monitoraggio dell’attività di questi professionisti che deve vedere loro, per primi, come protagonisti nella scelta degli strumenti da applicare. Ma è necessario che si raggiunga una seria considerazione di tale importanza. Di quanto sia importante salvare una vita umana. Non mi considero portavoce di tali bisogni e necessità ma riconosco che noi psicologi non siamo onnipotenti e dobbiamo accettare ciò che, talvolta, non è possibile dire né fare. A dire il vero non mi sono mai completamente riconosciuta nell’attuale compagine della psicologia militare pur avendo fatto del mio meglio in servizio e cercato, in piena coscienza, di tutelare gli interessi dell’istituzione. Af-fidarsi agli/degli psicologi è una conquista in itinere; a maggior ragione per quanto riguarda un ufficiale della riserva selezionata. Ma ciò non significa abbandonarsi al lassismo e al bisogno di potere di quelli che, non psicologi, pretendono di fare il mestiere che non gli compete e di quelli che, psicologi, non riescono a fare il loro mestiere o, se lo fanno, lo fanno male. In ogni caso, gli psicologi esistono nelle forze armate e, ancor prima, in polizia e bisogna farci i conti. Cercando di farli bene. Io ho cercato di portare i contributi delle mie esperienze ma non ho avuto la fortuna, nonostante i vari riconoscimenti accumulati, di incontrare chi aveva il potere di ascoltare e anche, forse, non ho saputo come farmi ascoltare. Diciamo che la psicologia militare non va coltivata per una questione di raffinatezza e sfizio ideologico ma per il pericolo dei paradossali comportamenti con cui sempre più ci troveremo a confronto. Credo che oggi la psicologia militare viva in un equivoco che varrebbe la pena di affrontare.

Box 2

Come intendere il disagio psichico per un appartenente alle forze di polizia/militare
alcuni modi di funzionamento psichico funzionali all’impiego
impiego operativo
IRRIFLESSIVITÀ – capacità di applicare l’addestramento in maniera automatica rilevando gli indicatori adatti;
IMPULSIVITÀ, TEMPERAMENTO EUFORICO – velocità di esecuzione;
TENDENZA ALL’ACTING OUT – capacità di isolare la propria emotività dall’azione (non empatizzare con il soggetto colpito dall’azione di forza);
MASOCHISMO – capacità di tollerare le frustrazioni subordinando il proprio benessere all’esecuzione del compito;
SCHIZOIDIA – capacità di isolare la propria vita affettiva dalla propria identità professionale durante l’azione;
SOSPETTOSITÀ – capacità di difesa contro una minaccia, di acuta e intensa attenzione, osservazione, indagine, previsione, ipervigilanza;
OSSESSIVITA’ – precisione, puntualità, amore per l’ordine, autocontrollo, desiderio di tenere sotto controllo le situazioni che dipendono dal proprio agire, affidabilità, capacità di portare a conclusione il compito nonostante le difficoltà, riflessività;
DEUMANIZZAZIONE DELL’OGGETTO – capacità di non considerare gli aspetti umani e affettivi del soggetto-nemico.

Box 3

Enigmatiche dinamiche all’interno delle nostre istituzioni.

TRATTO DA “I GUARDIANI DEL POTERE” DI FABIO MINI.

I Carabinieri pag.168

Pag. 169 – Il Rapporto personale, pur rimanendo professionalmente qualificato, talvolta è diventato meno funzionale al servizio allo stato e più vincolato alla sfera personale e individuale.
Pag.170…le affiliazioni e gli ammiccamenti da parte di questa o quella forza politica o del potente di turno hanno indotto i vertici dell’Arma a privilegiare i contatti con ogni branca del potere alto, prendendo sul serio le adulazioni, i corteggiamenti, i riconoscimenti e le proposte indecenti.
Pag.173…di fatto è aumentata (dopo il distacco dall’Esercito) la struttura gerarchica, la mono-archia. E sono aumentati i privilegi di alcuni con indubbie ricadute sull’efficienza generale.
Tratto da Pag. 174 …il Presidente del Consiglio Prodi… avrebbe tenuto buoni i carabinieri nominando comandante generale dell’Arma il generale dell’Esercito Sergio Siracusa che lo aveva doverosamente informato dell’affare Mitrokhin quando dirigeva il… SISMI.
Pag.175… c’è da capire se il sacrificio di molti al servizio dello stato serve veramente allo stato o agli interessi di pochi. C’è da capire a quale stato si riferisce il presunto servitore.
Pag.176… In pochi anni sono cresciuti nella testa assottigliando le gambe, riversano attenzione e risorse verso l’alto sacrificando il basso e sono legati a doppio filo con poteri dello stato.
Pag. 178…la vita del carabiniere non è affatto facile. come se non bastassero i sacrifici e i traumi connessi ai rischi della professione, i carabinieri cercano di crearsene degli altri con la competizione con le altre forze dell’ordine, con la ricerca di nuovi incarichi, …e nella frenetica lotta interna, fratricida… per la carriera.
l’ambizione per la carriera è ritenuta una caratteristica necessaria alla motivazione al servizio… grazie all’appartenenza a una cordata di favoritismi.

Tratto da “Il potere massonico” di Ferruccio Pinotti

Per non parlare della strumentalizzazione della massoneria.

…Perché le inchieste giudiziarie che toccano la massoneria e il potere politico-finanziario non approdano mai a nulla o vengono brutalmente soppresse…strutture di potere che fanno a pezzi la meritocrazia

NOTE

1) M.A.Favasuli “Disturbi Psichici in Ambito Militare”, Bollettino Epidemiologico della Difesa #11, Med Mil. 2019; 169(1): 7-28
2) Il Resto del Carlino, il Giorno, La Nazione, 12-11-2002
3) Quale buona pratica professionale e innovazione nell’ambito del Progetto PIS – Psicologia Innovazione e Sviluppo pubblicata sul Notiziario dell’Ordine degli Psicologi del Lazio n.5-6-7 del 2003.
4) Lettera del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri – richiesta di accesso ai documenti amministrativi – 2002
5) Documento della Scuola Allievi Carabinieri di Roma – Ufficio Addestramento a firma del Col. Leonardo Leso, rilasciato alla Garavini
6) L’aspetto preventivo è legato ad un concetto di intelligence il cui metodo può consistere nell’”intus legere”, leggere tra le righe negli spazi vuoti (tratto da Marco Mancini “le Regole del Gioco, per Rizzoli, Mondadori ed., 2023) che nel caso presente si integra alla strategia, ossia a “togliere”, a creare le righe bianche, a saper creare il vuoto invece che aggiungere e alla logica paradossale attraverso la quale spostare l’attenzione del soggetto da ciò che mantiene la crisi al fine di superare l’impasse rischioso.
7) Idem punto 5)
8) Le attività atipiche investigative prendono in considerazione le capacità di saper gestire imprevisti improvvisi e/o fatti incomprensibili e caotici, ossia quei rischi derivanti da modalità di approccio automatico e pianificato. Chi fa un primo intervento opera nelle medesime condizioni, aspetto che richiede un particolare profilo di personalità (box 2) e un addestramento specifico, quindi, quale supporto a quello professionale. Non è possibile agire né interpretare un ruolo troppo distante, per esempio, dalle proprie caratteristiche psicologiche poiché bisogna fare i conti con i messaggi di tipo non verbale che possono, in ogni caso, essere gestiti.


Simonetta Garavini è psicologa e psicoterapeuta psicoanalitica, esperta in psicologia giuridica e criminologia; è socio ordinario della Società Italiana di Criminologia. Nel 2003 consegue un Diploma di Master di II livello in PeaceKeeping and Security Studies presso l’Università degli Studi Roma Tre e, nello stesso anno, con Decreto del Presidente della Repubblica è un Maggiore Psicologo della Riserva Selezionata nell’Esercito Italiano, in congedo. Ha collaborato con il Ministero dell’Interno, l’Arma dei Carabinieri, la Guardia di Finanza, lo Stato Maggiore dell’Esercito e lo Stato Maggiore della Difesa. È autore del primo manuale sul Primo Intervento delle Forze di Polizia (Strategie operative di supporto nella conduzione di situazioni di crisi e di emergenza) con la prefazione del “Capitano Ultimo” edito da Laurus Robuffo.

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